La psicoanalisi relazionale e la psicologia del se’
Approfondimento sui riferimenti teorici
La Psicoanalisi è un ambito di studi molto giovane e con un ritmo di sviluppo e di cambiamento incredibilmente veloce. Si può affermare che, già a partire dalla sua nascita, ha visto il contemporaneo fiorire di interessi, curiosità e punti di vista differenti.
Dalla prima metà del secolo scorso, molti psicoanalisti hanno dedicato, nel tempo, sempre maggiore attenzione all’esperienza reale dei pazienti: autori come Ferenczi, Sullivan, Winnicott, Fairbairn hanno indagato e riconosciuto come aspetti centrali la storia affettiva delle persone e soprattutto le relazioni e le loro rappresentazioni.
Sono nati importanti studi riguardo le interazioni tra esseri umani: questi studi hanno riconosciuto ai primi legami di attaccamento un’importanza fino ad allora non considerata (Bowlby), dimostrando che essi continuano a esercitare una notevole influenza durante tutto il corso della vita.
Da questi filoni prende le mosse un crescente interesse verso il modo in cui le relazioni stesse agiscono sulla mente e sugli stati affettivi.
Ulteriore impulso arriva da scoperte scientifiche più recenti, in particolare nel settore dell’Infant Research, che si basa sull’osservazione diretta del bambino in interazione con gli adulti che se ne prendono cura. Una novità assoluta nel panorama psicoanalitico, dalla portata rivoluzionaria per quanto riguarda le considerazioni teoriche. Risultato centrale della ricerca sull’infanzia è che, a differenza di quanto si pensava in precedenza, il bambino nasce naturalmente predisposto a entrare in relazione con l’altro, principalmente con un adulto in grado di prendersi cura di lui. Ciò significa che nell’essere umano esiste una predisposizione genetica alla relazione, in quanto questa è necessaria alla sopravvivenza fisica e mentale dell’individuo.
L’insieme di queste riflessioni hanno costituito il terreno fertile per lo sviluppo di nuovi paradigmi, più attenti alla sempre maggiore complessità dei contesti sociali.
Queste teorie integrano la Psicoanalisi con le nuove scoperte scientifiche e con riflessioni cliniche sempre vive. Della Psicoanalisi “classica” conservano alcuni presupposti fondamentali: l’attenzione all’inconscio e alle sue molteplici manifestazioni, l’importanza della consapevolezza dei propri contenuti profondi e delle loro simbolizzazioni, il potere riorganizzativo della narrazione di sé e del proprio mondo interiore.
Contemporaneamente, apportano delle modifiche sostanziali in termini di considerazione delle motivazioni umane di base.
La Psicoanalisi Relazionale nasce nei primi anni ottanta dal lavoro di Stephen Mitchell. A partire dal 1983, con la pubblicazione di “Le relazioni oggettuali nella teoria psicoanalitica” di Greenberg e Mitchell, si inizia a prendere coscienza del fatto che esistano delle fondamentali differenze tra i modelli psicoanalitici pulsionali e quelli relazionali. Il successivo libro di Mitchell, “Gli orientamenti relazionali in psicoanalisi” (1988), definisce in modo più chiaro e netto il suo pensiero. Mitchell propone una sintesi tra le teorie pulsionali (secondo cui causa della psicopatologia è il conflitto intrapsichico) e le teorie dell’arresto evolutivo (che vedono la psicopatologia conseguenza di relazioni primarie disfunzionali) formulando il modello del conflitto relazionale. Secondo questo modello, la mente si sviluppa a partire da esperienze interpersonali organizzate in configurazioni che implicano il sé in relazione con l’altro. L’interiorizzazione delle esperienze affettive significative, “la matrice relazionale”, conduce alla riattivazione ripetuta delle mappe interattive nel tentativo di ripercorrere schemi familiari. La patologia è causata proprio dall’utilizzo inconscio che le persone fanno della loro esperienza pregressa, delle loro fantasie e delle loro strutture mentali, ed è legata ai significati che si sono strutturati nei contesti relazionali. <<Non siamo vittime passive dell’esperienza, ma piuttosto creatori attivi e perpetuatori fedeli degli schemi di interazione conflittuale in un mondo che, se non è sicuro, è perlomeno conosciuto>> (Mitchell, 1988, pag. 158).
La Psicologia del Sé si sviluppa e trova la sua formulazione teorica grazie a Heinz Kohut. Avendo a che fare principalmente con disturbi di tipo narcisistico, Kohut ha dedicato gran parte della sua vita professionale all’indagine sulle strutture interne di personalità. Aspetto centrale della sua teoria è il concetto di Sé, istanza psichica fondamentale, che rende ragione del sentirsi un centro autonomo di percezione e di iniziativa. Il Sé si sviluppa nei primissimi anni di vita in relazione con gli adulti significativi, i quali, attraverso esperienze di riconoscimento e rispecchiamento, favoriscono la formazione di una sana autostima, senza la quale non può formarsi una struttura psichica stabile. In un percorso di sviluppo ottimale, i genitori riescono a modulare la loro connessione empatica in modo tale che il bambino possa interiorizzare le esperienze buone e sviluppare un Sé coeso. Quando la sintonizzazione empatica è troppo carente, il Sé è fragile e sperimenta l’angoscia di frammentazione, la paura di disintegrazione psichica: da questi stati emotivi insopportabili, l’essere umano si difende strenuamente, mettendo in atto i meccanismi psichici in grado di proteggerlo. Compito essenziale della mente umana non è dunque difendersi dalle pulsioni ma cercare di mantenere un accettabile livello di integrità del Sé, tale da permettere il suo sviluppo armonico e il conseguimento di scopi e ideali. Il bisogno di sperimentare la coesione del Sé guida anche verso la riparazione delle esperienze negative, verso la ricerca di esperienze empatiche in grado di contribuire alla formazione di una nuova struttura.
Dopo Kohut, il campo di interesse della Psicologia del Sé, è stato approfondito e ampliato grazie a molti psicoanalisti, come Beebe, Lachmann, Fosshage. Con Joseph Lichtenberg, si arricchisce delle riflessioni sugli stati affettivi, la loro regolazione e i sistemi motivazionali che guidano il sentire e l’agire umano.
Spingendo avanti i concetti della Psicoanalisi Relazionale e della Psicologia del Sé, gli Intersoggettivisti concentrano la loro attenzione sull’influenza reciproca. Partendo dal presupposto che non esista una mente isolata, Stolorow e Atwood esplicitano come siamo sin dalla nascita immersi in ”un sistema creato dall’interazione di mondi soggettivi”. Non esiste, dunque, l’individuo separato dal contesto, ma abbiamo sempre a che fare con un campo di soggettività che agiscono l’una sull’altra: un campo intersoggettivo, appunto, in cui siamo immersi fin dalla nascita, che non è dato una volta per tutte ma che si modifica continuamente in base ad azioni, fantasie ed emozioni.
In Italia, la Psicoanalisi Relazionale e la Psicologia del Sé si diffondono grazie all’Isipsé, Istituto di Psicologia Psicoanalitica del Sé e Psicoanalisi Relazionale. Fondato nel 1998, è un fondamentale punto di riferimento scientifico, non solo per l’attività di formazione ma anche e soprattutto per la funzione di raccordo delle esperienze e delle riflessioni internazionali sull’argomento.
Infine, le recenti scoperte nel campo delle Neuroscienze hanno dimostrato il substrato neurale di alcuni concetti psicoanalitici, avvalorando la tesi della predisposizione alla relazione. Queste ricerche mostrano come alcune aree del nostro cervello, che guidano il movimento, siano formate da neuroni che si attivano sia quando si compie una determinata azione, sia quando si osserva un’altra persona che compie la stessa azione. La scoperta dei “neuroni specchio” ha aiutato a comprendere le basi neurobiologiche dell’empatia, della comprensione delle intenzioni altrui e, quindi, delle esperienze intersoggettive.
Da queste impostazioni derivano importanti aspetti clinici. L’ascolto empatico, all’interno di una cornice protetta che generi un clima di fiducia, facilita l’espressione libera dei vissuti emotivi e la possibilità, per paziente e terapeuta, di esplorarli insieme e senza giudizi. L’attenzione costante al modo di entrare in relazione permette di prendere consapevolezza dei modelli relazionali: quelli utili e quelli disfunzionali. A questi ultimi, nonostante il loro carattere disadattivo, viene riconosciuto un grande valore, poiché rappresentano comunque il modo in cui l’individuo ha potuto reagire al contesto in cui è vissuto e alle sue distorsioni. I meccanismi di difesa non sono errori da correggere ma strumenti fondamentali per preservare il Sé dall’angoscia di frammentazione. La sintonizzazione sugli stati affettivi che il paziente vive dentro e fuori la terapia è la via maestra per riconoscerli, comprenderne le origini e le simbolizzazioni inconsce, e per rendere evidente la ripetitività di comportamenti non adattivi e che generano sofferenza. In questo modo è possibile ricominciare ad accostarsi alle proprie esperienze in modo nuovo, e recuperare aspetti evolutivi che si erano bloccati. Alla luce di ciò, un percorso terapeutico ben condotto rappresenta un valido aiuto al fine di integrare una buona esperienza di Sé all’interno di uno sviluppo armonico.