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il valore della domanda

“Vivi la domanda ora. Forse poi, in qualche giorno lontano nel futuro, inizierai gradualmente, senza neppure accorgertene, a vivere a tuo modo nella risposta”. Rainer Maria Rilke.

Il malessere dell’anima si presenta a noi come un’affermazione. Ci sentiamo agitati, depressi, inchiodati dall’angoscia o posseduti dall’ansia fino al panico. Come una verità indiscutibile, il carattere perentorio dello stare male si impone in tutta la sua pesantezza. In quei momenti sembra non esserci spazio per nient’altro: il nostro corpo è stanco o molto teso; i nostri pensieri si disperdono in mille rivoli di malumore o sono concentrati sulle paure che sembrano non concedere tregua. La nostra natura ci fa reagire con fastidio, cercando di ristabilire l’equilibrio perduto. Metaforicamente, è come se il nostro campo visivo si fosse ristretto, e sentiamo l’urgenza di trovare presto una soluzione. Ognuno di noi la cerca in modi diversi, più o meno funzionali: la rassicurazione da parte di una persona fidata, una definizione medica o psicopatologica dei sintomi, i farmaci, le dipendenze di vario genere. Tutti questi comportamenti hanno in comune il fatto di permetterci di affrontare il nostro star male, e lo fanno in un modo che risponde ad una affermazione con un’altra affermazione.

E se invece considerassimo il malessere nella sua forma interrogativa?

Fondamentalmente, più che imporre una verità, i nostri sintomi ci presentano una domanda. A volte una domanda piccola, a volte una domanda grande, che può riguardare l’intera nostra esistenza e il modo in cui la viviamo. Se ci lasciassimo guidare dagli interrogativi che nascono dentro di noi e provassimo a dare loro una cittadinanza, potremmo riscoprire la caratteristica tutta umana del dubbio, caratteristica preziosa, perché ci toglie dalla gabbia della verità assoluta. Tanto più preziosa in una società (come la nostra attuale) piena di certezze sulla vita, su come condurla, su cosa è bello, giusto, desiderabile e socialmente accettabile fare, dire, pensare, persino sentire: risposte preconfezionate che non fanno altro che aumentare il senso di inadeguatezza e di lontananza da un’idea di perfezione che non trova corrispondenza nella realtà.
La forma interrogativa, invece, apre a innumerevoli possibilità. Nostro compito è accoglierle e considerarle percorribili. Generalmente è questo il passaggio più difficile, non solo perché abbiamo la tendenza a resistere a ciò che non conosciamo utilizzando modalità che ci sono note, ma anche perché tollerare la frustrazione e l’incertezza richiede uno sforzo che ci mette a confronto con le nostre paure più profonde e con il senso di solitudine. D’altra parte, però, il nostro stare male, in fondo, ci chiama a non ignorarlo, a non voltarci dall’altra parte, e a stare su un terreno scomodo ma ricco di promesse. Ci chiama a confrontarci con il conflitto, con ciò che è sconosciuto, che segue vie logiche diverse dal solito, con la contraddizione, con ciò che significa una cosa e anche il suo contrario. Una contraddizione che il nostro inconscio conosce bene (poiché fa parte del suo stesso linguaggio), e che tanto ci turba, ad esempio, nei sogni. Eppure, contemporaneamente, è la porta che apre al nuovo.

Vivere la domanda è la strada che abbiamo per scoprire che le verità che ci arrivano dall’esterno possono non andar bene, e che abbiamo bisogno di risposte personali e uniche. La strada che rende possibile una vita autentica, che ci appartiene davvero.
O no?

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